lunedì 16 giugno 2025

La Sesia e il Fenera. La visione perfetta

A volte basta esprimere un desiderio, e senza nemmeno chiedere, ciò che si cerca, e che vuole farsi trovare, arriva.
Devo ringraziare di cuore chi mi ha parlato di questo luogo, che era esattamente quello che cercavo. La visione nella quale ambivo perdermi era questa, fra le acque fresche della dolce e bella Sesia, e il gigante Fenera quasi a specchiarsi sulla loro superficie. Un luogo isolato, naturale, selvatico, dove ogni cosa è esattamente come è sempre stata.
Qui i mondi si incontrano e si sfiorano, e la leggenda vive, respira, e si compie.

L’ho riportata poche pagine addietro, la trovate qui: La leggenda del fiume Sesia e del monte Fenera
Questa, la mia visione perfetta:


Sento che questo luogo è diventato una piccola casa nascosta, un posto dove riposare la mente e lasciar volare l’anima, leggera, gioiosa, libera.


Sento ancora il calore del sole sulla pelle, l’acqua fredda a lambire i piedi immersi fra minuscoli pesciolini, la potenza del monte… e il desiderio di volare, fra il fiume e il cielo.
Un lungo momento di bellezza infinita, a fondermi con l’incanto dell’acqua e del monte, l’uno sopra l’altra, senza nient’altro in mezzo.




***

Ringrazio per questa bellissima giornata, che nonostante il caldo e un piccolo calo di pressione che per qualche attimo mi stordita, è stata memorabile. E ricordo con un sorriso la dolce cagnolina che, con la sua simpatica padrona, abbiamo incontrato inaspettatamente per ben tre volte in tre luoghi diversi. Sono quasi scoppiata a ridere quando è stato chiesto il suo nome. Si chiama Stella.


ALBUM FOTOGRAFICO

giovedì 12 giugno 2025

Il Santuario di Sant'Anna a Montrigone e la roccia ramata

La seconda tappa del mio viaggetto solitario di ieri pomeriggio, sotto un sole cocente, è stata molto carina e mi ha lasciato dentro una bella sensazione.
Dopo essermi immersa nella visione e nella leggenda della azzurra Sesia e del gigante Fenera, guardandoli dal caldo ma ventoso ponte di Aranco, alle porte di Borgosesia – e dopo aver zoppicato imprecando per venti minuti alla ricerca di una farmacia, quando l’immancabile vescica mi si è aperta nel tallone, facendomi vedere ad ogni passo la madonna e tutti i santi – mi sono concessa un caffè e una crostatina in un bar vicino, dove ho scambiato qualche parola con la gentilissima proprietaria. Proprio lei mi ha consigliato che strada prendere per raggiungere il posto che volevo vedere, e dopo essermi rifocillata – col mio benedetto cerotto sul piede – sono stata pronta a ripartire.
A dire il vero il posto era proprio a poche centinaia di metri, e senza rendermene conto lo avevo già visto spiccare in cima al misterioso Montrigone.
Si tratta del Santuario di Sant’Anna, ricordato per la presenza della roccia ramata, considerata fonte di guarigione e benessere. Il santuario non è antichissimo, in realtà venne costruito nel 1700 sui resti di un castello di proprietà dei conti di Biandrate, e sempre nello stesso periodo vennero costruite anche le quattordici cappelle che fanno parte della breve ma intensa via crucis che sale, in un percorso a scale quasi verticale, verso la cima del monte.
Ammetto che, col caldo che faceva e la poca voglia di guardare le solite cappelle – che personalmente mi interessano poco – ho deciso di raggiungere la cima direttamente in macchina e godermi la parte più affascinante del posto, oltre che la bellezza della natura circostante.


Dal lato settentrionale, volgendo le spalle al caro monte Fenera, si raggiungono subito le misteriose nicchie, sei in tutto, più simili a piccole grotte scavate nella roccia. Una roccia guaritiva, tanto ricca di rame da essere completamente rossa.
La prima nicchia, salendo verso la cima, è poco profonda e ospita le statue dell’apparizione della Madonna a una pastorella, la seconda e la terza invece sono vuote, o meglio, sono state chiuse, cementificate, e la presenza della roccia ramata è davvero preponderante. Accanto alla seconda nicchia è stata posta una colonnina per le ellemosine – o forse per indirizzare, o correggere, altri tipi di offerte. Quindi la quarta grottina ospita una statua di San Giovanni Battista, la quinta una Maddalena a seno nudo e lunghi capelli, con accanto il teschio, e la sesta il Cristo morto, con un angelo dal volto dolce.



Naturalmente le nicchie più interessanti e misteriose sono quelle chiuse e vuote, eppure sono piene di pietra rossa. Mi sono chiesta cosa avesse potuto contenere quella cementificata, anche perché, come ricorda l’autore Roberto Gremmo, la roccia è la stessa dei poco distanti santuari di Boca e di Azoglio, dove nel primo è stata costruita una cappella proprio sopra la roccia, per nasconderla, e nel secondo parte della chiesa, nel punto in cui la roccia era più visibile e accessibile, è stata ugualmente cementificata; e di esempi simili ce ne sono parecchi. Forse non è questo il caso, ma se invece lo fosse, anche questa volta si tratterebbe di un luogo nel quale per lungo tempo vennero perpetuate pratiche magiche per ottenere fertilità e guarigione da coloro che le antiche vie, e gli antichi modi, non li avevano mai dimenticati.




Per quanto mi riguarda, lungi dal desiderare fertilità, ho chiesto invece guarigione, e anche se un po’ dura e scomoda, perché appuntita, mi sono seduta per qualche secondo sulla nuda roccia rossa, perché l’energia arrivasse esattamente dove ne ho più bisogno.
Quindi, dopo aver temporaneamente lasciato le nicchie alle spalle, ho raggiunto il porticato della chiesa e mi sono riempita i polmoni di aria fresca e gli occhi di bellezza. La vista da lassù è davvero bella. La giornata calda e afosa non permetteva di vedere le varie cime delle montagne delineate davanti al porticato, ma in una giornata luminosa e tersa la vista dalle comode panchine deve essere splendida. Di certo vale la pena tornarci nel momento giusto, con la vista giusta.


Ho lasciato il porticato e ho percorso qualche tratto di via crucis al contrario, convenendo sul fatto che avere come destinazione spirituale il parcheggio del supermercato non era ispirante, e che di certo questa particolare via crucis è bella solo se svolta nel senso giusto, dal basso verso l’alto.
Il sole da quel lato scotta particolarmente, così mi sono rifugiata di nuovo in una delle fresche nicchie rosse, e dopo essermi rinfrescata e un poco rigenerata, ho preso la via del ritorno.





Approfondendo un pochino la sua storia, si dice che il luogo avesse generato due eventi miracolosi: la fioritura di un magnifico roseto durante una notte di Natale, e la salvezza della popolazione valsesiana dall’epidemia di peste grazie all’intercessione di Sant’Anna.
Per quanto riguarda invece il significato più suggestivo di Montrigone, ovvero del nome del monte che ospita il santuario, purtroppo non sono affatto convinta della sua credibilità – e ricordo sempre che non è ciò che piace di più a esser vero, è vero quel che è vero, anche quando piace meno.
In una guida illustrata della Valsesia pubblicata nel 1894, l’autore Federico Tonetti sostiene infatti che il toponimo del monte derivi da Mons Orionis, ovvero Monte Orione o Monte di Orione, riferendosi alla grande costellazione celeste e lasciando forse intendere che l’altura fosse dedicata a pratiche divinatorie di osservazione delle stelle (1). Certamente è un’ipotesi affascinante, ma – al di là del fatto che non mi suona giusta, ma questa è una mia considerazione personale – non esiste alcuna documentazione a riguardo, mentre altre fonti locali definiscono il toponimo come la semplice unione di Monte Rigone, “dal latino origonus, a sua volta da oro, cioè “pianoro rialzato”, un termine appartenente allo strato linguistico padano e molto diffuso in Valsesia” (2). Origine che trovo assai più verosimile, per quanto meno ispirante.
Che poi ci sia stato, o ci sia ancora, chi osserva le stelle sulla cima del Montrigone, questa è altra storia, ma credo sia sempre giusto essere onestə e correttə, e quindi attendibili, nella propria ricerca, a prescindere da ciò che piaccia o meno.

Dopo questo breve ma affascinante incontro, credo che il Santuario dedicato a Sant’Anna, ovvero a una santa che il più delle volte venne appositamente sovrapposta all’antica dea, madre di tutte le madri, in un luogo intriso di rame ed energia rigenerativa, meriti di certo una visita e forse, un’indagine più profonda. Profonda come le grottine che sono state chiuse, nascoste dal cemento, e che non è dato sapere cosa contenessero e come, un tempo, venissero utilizzate.
Forse certe cose non si possono conoscere, ma è bello provare a immaginarle, a sentirle, e forse, a scoprirle camminando fra il visibile e l’invisibile, un passo dopo l’altro, un passo dentro l’altro.

***

ALBUM FOTOGRAFICO

***

Note:

1. Le informazioni sono contenute in Roberto Gremmo, Valsesia magica e misteriosa, Botalla Editore, Biella, 2023, pagg. 23-25.

2. Vedi il sito ufficiale della Valsesia: In Valsesia – Santuario di Sant’Anna

La leggenda del fiume Sesia e del monte Fenera

Attendevo il momento di raccontare questa leggenda come avrei voluto farlo, con la foto perfetta che la rappresentasse, ma il luogo che cerco, la visione che vorrei avere davanti agli occhi, non l’ho ancora trovata. So che è da qualche parte, sulla sponda sinistra del fiume Sesia, ma per adesso resta nascosta. Se vorrà si farà trovare, ne sono sicura.
Pur rimanendo in sua attesa, dopo il piccolo giro solitario di oggi ho deciso di riportare la storia comunque, anche se la foto che la accompagna, per quanto bella, non è quella che vorrei.
Si tratta della leggenda del fiume Sesia, quando era ancora una bellissima fanciulla – il titolo la definisce una ninfa, ma di fatto è una semplice ragazza – e del monte Fenera, quando era ancora un prepotente gigante.
Premetto che non sono affatto certa dell’autenticità di questa storia, credo sia semplicemente stata creata in tempi piuttosto recenti, forse appositamente per entrare a far parte del progetto di recupero di leggende del territorio novarese che venne organizzato nella scuola elementare di Grignasco nel 1993, e che venne sostenuto da Sebastiano Vassalli – il libretto che ne nacque contiene, appunto, la prima e unica trascrizione della leggenda.
Tuttavia, la trovo carina, e oltretutto sembra legata alle raffigurazioni del gigante San Cristoforo e della dolce figurina che spesso appare vicino o in mezzo alle sue gambe, la sirena bicaudata. Questo interessante ed emblematico accostamento compare in diversi affreschi antichi, e mi affascina sempre moltissimo. Non a caso, una di queste raffigurazioni compare sulla facciata della chiesa parrocchiale di Quarona, in Valsesia – ne riporto in seguito due foto scattate in occasione delle giornate del FAI di primavera di marzo 2024, mentre un’altra è riportata nel mio resoconto del viaggio alla Sacra di San Michele.
Quella che segue, quindi, è la leggenda originale, scovata nel libricino del progetto di recupero, che avevo in casa dai tempi della scuola.

La ninfa Sesia e il gigante Fenera
Leggenda valsesiana


“Tanto, ma tanto tempo fa. La Valsesia era una pianura fertile, sempre fiorita, e le persone che vi abitavano vivevano in pace e in serenità.
Fra di esse vi era una fanciulla dai lunghi capelli biondi e dai grandi occhi scuri di nome Sesia, tanto bella che nessun giovane osava avvicinarla.
Un brutto giorno il gigante Fenera, figlio di Titano, scese in questa pianura e si innamorò perdutamente di Sesia; lei ricambiò il suo amore e lui ne fu così orgoglioso da tentare di ribellarsi a Giove, re di tutti gli dei. Infatti in un solo giorno costruì con enormi massi una catena di monti e di strette vallate schiacciando persone e cose.
Giove si adirò con Sesia che, per amore, aveva permesso l’uccisione della sua gente e le disse: “Il tuo sorriso si trasformerà in lacrime perenni” e la mutò in fiume: il fiume Sesia.
Impazzito per il dolore, il gigante Fenera si accanì ancor di più contro gli abitanti della Valsesia, decidendo di ucciderli tutti. Ma Giove, impietosito dai loro lamenti, castigò anche lui, trasformandolo in monte: il monte Fenera.” (1)

***

Che la leggenda sia veramente autentica e antica, non è dato sapersi, di certo è narrata con l’intento di mitizzare la bellezza del fiume e del monte che lo sovrasta, proprio nella zona che da Grignasco giunge fino a Borgosesia, tentando al contempo di spiegare l’iconografia – di gran lunga più antica – di San Cristoforo e della sua bella sirenetta a due code. (2)
Io l’ho trovata carina, e ho voluto condividerla nella sua completezza.


La foto l’ho scattata oggi, sotto un sole bollente, sul ponte di Aranco, all’inizio di Borgosesia. Qui il fiume è più stretto e profondo, e accoglie con dolcezza il monte Fenera come se sorgesse dalle sue acque azzurre. Sono loro, la fanciulla Sesia e il gigante Fenera.
Il luogo nel quale, ai miei occhi, il loro amore si manifesta con dolcezza, è ancora celato. Quando e se si rivelerà, lo coglierò con gioia.

***

San Cristoforo e la sirena bicaudata sulla facciata della Chiesa parrocchiale di Sant'Antonio a Quarona - 24 marzo 2024:



Note:

1. Leggenda riportata da Elena Zaninetti, della Scuola elementare di Grignasco per il progetto di recupero di storie e leggende del territorio novarese. Tratta da Roberto Cicala (a cura di), Storie ritrovate. Racconti e leggende del territorio novarese, con una presentazione di Sebastiano Vassalli, Provincia di Novara – Assessorato alla Cultura, Edizioni Interlinea, Novara, 1993, pag. 116.

2. Per approfondire l’argomento consiglio il saggio di Rosella Osta Sella, San Cristoforo da cinocefalo a traghettatore, in Anna Lamperti Donati e Rosella Osta Sella, La Sesia racconta. Millenni di storia lungo le rive del fiume, EOS Editrice, Novara, 2020, pagg. 79-90; e Roberto Gremmo, Valsesia magica e misteriosa, Botalla Editore, Biella, 2023, pagg. 10-12.

sabato 7 giugno 2025

Le rovine della Pieve di San Martino

Non sono sicura del fatto che riuscirò ancora a fare i miei amati viaggetti, camminando fra un mondo e l’altro – fosse anche solo quello della mia percezione interiore. L’affezione che mi ha colpita mi dà dolori sempre più frequenti, e non so cosa mi riservi il futuro. Certe volte la speranza è più dolorosa dell’accettazione, per cui prendo ciò che viene e non chiedo a me stessa di andare oltre quel poco che riesce a fare.
Ieri avevo bisogno di uscire di casa, nonostante dolore e disagio, e avevo bisogno di un luogo di potere nel quale camminare da sola, dentro e attorno. Fra le tappe semplici che in tempi non sospetti mi ero appuntata c’era quella delle rovine della Pieve di San Martino, a Gattico, un tempio che appartiene al passato, suggestivo e magico, e nonostante molto vicino alle abitazioni, già appartenente alla dimensione altra. Isolato, boschivo, sospeso.



Ho raggiunto la stradina che porta alla pieve, lasciando la macchina a pochi passi, e mi sono immersa in quel piccolo angolo magico, scoprendolo pieno di vita. Lucertole soprattutto, che spuntavano da ogni angolo, si nascondevano fra le pietre assolate, una è addirittura caduta dall’alto, mentre altre si riparavano sotto il masso scavato, un tempo utilizzato come vasca battesimale. Al suo interno era rimasta un po’ di pioggia, così ne ho raccolta qualche goccia e ho bagnato la fronte e il cuore.


La pieve naturalmente è chiusa da un cancello e non è accessibile, ma con lo sguardo e spingendosi oltre le sbarre con l’immaginazione, è possibile percorrerne l’interno, il corridoio centrale, ora coperto d’erba, le arcate laterali, le nicchie nascoste. Ho oltrepassato le sbarre e ho camminato nel centro di questo luogo sospeso e potente, che pare abbandonato, ma è più che mai vivo.
Camminare oltre le sbarre e le porte chiuse. Anche questo, forse, è possibile. Basta volerlo.




Ho percorso le rovine lungo il loro perimetro, ricordando ancora una volta di camminare con grazia, ovvero evitando di calpestare le api numerosissime che succhiavano il nettare del trifoglio bianco e avendo cura e rispetto per i fiori.
La parte posteriore della pieve è la più suggestiva. Il bosco attorno, la radura su cui sorge, il profumo selvatico che la avvolge. L’ho guardata a lungo, cercando di assorbirne la bellezza.


Ne ho percorso l’altro lato e, fra l’erba, una macchiolina di colore – il mio colore dell’anima – ha attirando la mia attenzione: una minuscola piumetta di ghiandaia. L’ho accolta come un piccolo dono e l’ho portata via con me.
Nel tornare davanti alla pieve, ho notato che la parte laterale del masso usato come vasca per l’acqua era molto particolare. Un buco poco visibile all’interno, dal quale l’acqua è colata per secoli, ha creato una fessura profonda che scorre fino a terra. Una forma sinuosa e dolce, accanto alla quale è nato il muschio.



La Pieve di San Martino, o quello che ne rimane, non è nata in questo luogo a caso. Così si legge all’ingresso del sito:
La scelta dei conti Da Castello di Gattico di costruire – fra il 1125 e il 1150 – la chiesa di S. Martino, capo della pieve, lontano dal loro castello è dovuta alla sacralità del luogo. La tradizione segnala un preesistente tempio a Mercurio e il trafugamento di una statuetta bronzea del dio.
Non ne sapevo nulla, ed è interessante l’associazione – sicuramente non isolata – del dio dal piede alato, della medicina e della comunicazione a San Martino, presente in luoghi sacri dalle energie simili.
Curioso, ho pensato, che senza sapere nulla avessi sentito la necessità di recarmi in un luogo dedicato a una delle divinità della guarigione. Così gliel’ho chiesta. Se dovrà arrivare, verrà. E se sarà, la mia gratitudine sarà talmente grande da riempire la terra, il cielo, e tutto ciò che vive nel mezzo.

Ripercorro questo luogo a occhi chiusi, e sono certa che tornerò. Nonostante distratta dal fastidio fisico, mi ha incantata. La sua magia è visibile, ed è una magia luminosa, rigogliosa, viva.



Ho salutato le lucertole, che osservavano attente ogni mio passo, poi un ultimo sguardo alle rovine immerse nella luce del sole, e sono tornata verso casa.
Adesso ho una certezza. Se e quando riuscirò a spostarmi, sarà verso luoghi di guarigione, in cui chiedere e pregare per la guarigione. Chissà che, in uno di questi, non vi sia qualche entità spirituale benevola che, come immenso dono, vorrà concedermela.


***

ALBUM FOTOGRAFICO

***