Il viaggio di alcuni giorni fa non mi ha portata lontana dalla mia terra, mi ci ha portata ancora più dentro, nella culla dove tutto è iniziato.
Vivo da sempre immersa fra le risaie e sin da bambina mi sono abituata ai loro cicli di semina, crescita, raccolto e riposo. Il riso e gli uccelli acquatici sono i miei compagni di vita quotidiana. Aironi cenerini e maggiori, garzette, ibis sacri, anatre e gallinelle d’acqua frequentano normalmente i campi davanti a casa, e non posso spiegare la gioia dell’arrivo, quest’anno, delle avocette, con il loro becco lungo, sottile e all’insù.
Proprio loro hanno accompagnato la prima parte del nostro viaggio, lungo una stradina che attraversava le “mie” campagne, immerse nell’acqua che riflette il cielo e incorniciate da argini di papaveri, iris d’acqua, margherite e altri fiori ed erbe selvatiche.
Quando sono apparse in lontananza le prime colline verdi del Monferrato, siamo quindi arrivati alla meta: il Principato di Lucedio, a pochi chilometri da Trino Vercellese.
Il primo chicco di riso che tanto tempo fa germogliò e venne raccolto in Italia, è nato qui.
Il Principato di Lucedio comprende l’Abbazia di Santa Maria di Lucedio, fondata dai monaci cistercensi nel 1123, e attualmente l’azienda agricola. Furono proprio i monaci a trasformare i terreni umidi e boscosi attorno all’abbazia in campi adatti alla coltivazione, e per primi in tutta Italia, a coltivare il riso.
Chi visita Lucedio, cammina sulla terra che è stata la culla del riso italiano, e che per prima ne ha visto ondeggiare le spighe.
Guardandomi intorno, fra riflessi d’acqua, primi germogli verdi, fiori selvatici e api, mi sono scoperta innamorata. I suoi colori, i suoi cicli, anche quella piattezza che ho sempre considerato monotona e noiosa, sono per me una casa amata. E conoscere il luogo dove tutto è iniziato ha reso ancora più vivo e profondo il mio legame con essa.
Dopo aver lasciato la macchina, abbiamo atteso l’apertura dei cancelli all’orario stabilito e la visita è iniziata. La guida, preparatissima, ironica e molto paziente, ha raccontato l’origine del Principato, e ci ha portate/i nelle sale restaurate dell’antica abbazia: la Sala dei Conversi, con le colonne basse e il soffitto a volte a vela, il bellissimo chiostro con i roseti, la grande Sala dei Monaci, anch’essa con colonne basse e larghe e soffitto a volte, e la Sala Capitolare, con le colonnine sottili e l’affresco della Crocifissione.
Proprio la guida ha precisato alcune informazioni che è difficile trovare spiegate in modo corretto.
In particolare, l’origine stessa del nome Lucedio, che alcuni fanno derivare dalla parola locez, con cui erano chiamate le boscaglie incolte su cui nacquero i campi di riso, mentre altri vorrebbero derivasse da “Luce di dio” o “Dio della luce”, intendendo Lucifero – da cui derivano in effetti molte delle leggende legate a questo luogo.
La parola in realtà proviene dal latino lucus dei, ovvero “bosco del dio”, intendendo non il dio cristiano ma una divinità molto più antica legata alle foreste. Prima che vi nascessero i campi di riso, il territorio era infatti una immensa selva rigogliosa, nella quale erano evidentemente onorate le divinità boschive, e in particolare un dio antico e sconosciuto che forse col tempo assunse agli occhi dei cristiani le sembianze del diavolo.
Al termine della visita, chi lo desiderava – previa prenotazione – sarebbe poi salita/o in cima al campanile ottagonale, dal quale si può osservare tutto lo splendido paesaggio circostante. Per questa volta però abbiamo preferito stare a terra e visitare il rustico negozietto aziendale, dove abbiamo acquistato alcuni prodotti preparati con questo prezioso riso di origine secolare. Abbiamo scelto i biscottini – le Risaiole – e i grissini di riso, un riso con condimento agli asparagi, uno con zucca e mela, e la tradizionale zuppa di Lucedio, con riso e legumi.
Dopo aver quindi lasciato il Principato di Lucedio, e aver visto chiudersi i cancelli alle nostre spalle, seguendo la mia amata via delle leggende ci siamo spostati poco più avanti, alla misteriosa chiesetta della Madonna delle Vigne, che contiene l’affresco del cosiddetto Spartito del Diavolo. Per arrivarci abbiamo percorso a piedi un breve sentiero boschivo, che ci ha portati alla chiesa diroccata, vandalizzata e malmessa. Entrare è sconsigliato, e chi lo fa, lo fa a proprio rischio e pericolo. Noi ovviamente lo abbiamo fatto, e dopo una breve perlustrazione abbiamo scattato alcune fotografie al misterioso spartito musicale – la cui leggenda è appuntata in seguito.
Dopo la Madonna delle Vigne siamo quindi passati al cimitero di Darola, dove io e il lupetto ci siamo inoltrati fra la vegetazione e i rovi per raggiungere l’antica chiesetta cimiteriale, quasi completamente coperta di rampicanti. Ho provato molta tristezza per il modo in cui sono stati trattati questi morti. Nessuna pietà né rispetto, solo rovine, lapidi distrutte e scritte sui muri fatte da miseri individui poco evoluti mentalmente.
In entrambi i luoghi l’atmosfera non è positiva, purtroppo sono ancora visitati da brutta gente che li rovina e pratica riti satanici.
La presenza di certi animaletti però è sempre purificante e riarmonizzante.
All’interno della chiesa della Madonna delle Vigne c’erano le taccole rigeneratrici – una era appollaiata sul soffitto ed è volata fuori dalla finestra quando sono entrata – mentre al cimitero c’erano tantissime lucertoline. Per loro tutta quella vegetazione selvatica e i muri di pietra scaldata dal sole e coperti di rampicanti devono essere il paradiso.
La mia speranza è che questi posti vengano presi in cura, e che possano ritrovare pace, silenzio e soprattutto rispetto.
Lungo la via del ritorno, il sole si rifletteva forte sull’acqua delle risaie e i papaveri brillavano di luce propria. Ho ricordato Dorothy del Mago di Oz, e mai come in quel momento sono stata d’accordo con lei.
Nessun posto è bello come casa mia.
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Per conoscere meglio la storia del Principato di Lucedio e le leggende dell’Abbazia di Lucedio, della Madonna delle Vigne e del cimitero di Darola, ho raccolto qui sotto qualche notizia. Mi sono basata solo su libri pubblicati, siti che dovrebbero – spero – essere affidabili, e sulle accurate spiegazioni fornite dalla guida nel corso della visita. In rete circola di tutto su questi luoghi, senza mai una fonte bibliografica o una minima documentazione, per cui non è possibile considerare attendibili le informazioni riportate in questo modo.
Breve storia del Principato di Lucedio
L’abbazia di Lucedio, o di Santa Maria di Lucedio, venne fondata nel 1123 dai monaci cistercensi che provenivano dal monastero francese di La Ferté a Chalon-sur-Saône, in Borgogna. La loro regola spirituale era “ora et labora”, e in effetti i monaci seppero unire la loro spiritualità a un duro lavoro, trasformando un vasto territorio di boschi umidi e paludosi in campi adatti alla coltivazione. Si deve a loro l’introduzione della coltivazione del riso in Italia, ed è a Lucedio che nacquero le prime risaie italiane.
Nel corso del tempo, per la ricchezza che forniva il territorio, il complesso abbaziale divenne un importante centro politico. Per un certo periodo, all’inizio del 1800, divenne addirittura proprietà di Napoleone Bonaparte, e in seguito passò al marchese Giovanni Gozzani di San Giorgio, che a sua volta lo cedette nel 1861 al duca genovese Raffaele de Ferrari di Galliera, che ottenne il titolo di Principe di Lucedio.
La attuale proprietaria del Principato è la contessa Rosetta Clara Cavalli d’Olivola Salvadori di Wiesenhoff – discendente del marchese Giovanni Gozzani di San Giorgio – che insieme alla sua famiglia continua la tradizione secolare di coltivazione del riso.
Ad oggi, dell’abbazia originaria si sono conservati il campanile di pianta ottagonale, sul quale un tempo erano fissati dei piatti di ceramica che riflettevano la luce del sole e fungevano da faro per i pellegrini, che seguendo i bagliori riuscivano a raggiungere la foresteria per ristorarsi e trascorrere la notte; il bel chiostro, la Sala dei Conversi, con le volte a vela, la Sala dei Monaci, e la Sala Capitolare, con le sue colonne di pietra, i capitelli altomedievali, l’affresco della crocifissione e la cosiddetta “colonna che piange”, per via della sofferenza a cui si dice abbia assistito per molti secoli.
Ancora oggi il Principato di Lucedio produce riso di ottima qualità. Riso che, in un certo senso, ha le radici più antiche d’Italia.
Le leggende di Lucedio
Intorno all’Abbazia di Lucedio sono nate numerose leggende inquietanti, nelle quali è frequente la presenza del diavolo.
Innanzitutto, nella Sala Capitolare si dice che una delle colonne “piangesse” per via delle torture e delle sofferenze a cui aveva assistito per secoli. Era infatti in questa sala che si svolgevano i processi e che si infliggevano le condanne e le torture ai monaci che cedevano alle tentazioni. La pena più lieve era l’alimentazione per alcuni giorni a pane e acqua, mentre quella più brutale era la flagellazione. I monaci venivano legati a una colonna – proprio quella che lacrimava – e frustati ripetutamente. Per molto tempo, in effetti, la colonna trasudò acqua dal capitello, l’unico visibilmente rovinato per la forte umidità, ma la vera ragione era data dalla presenza di una falda acquifera sotto la sua base. La falda impregnava la pietra e la rendeva perennemente umida, ma con i lavori di restauro della sala è stata isolata. Da quel momento la colonna ha smesso di piangere.
Nelle vicinanze dell’abbazia sorge il cimitero di Darola, abbandonato da molto tempo e avvolto in un impenetrabile groviglio di rovi e vegetazione. Sono rimaste solo alcune lapidi abbattute o appoggiate ai muri, le tombe sono state frantumate e private dei loro poveri resti. Su uno dei lati della chiesetta è fissata una stele con un’iscrizione in memoria di due giovani gemelle, Vittoria e Teresa, morte nel 1868 a soli quindici anni per cause sconosciute. La stele che è posta accanto alla loro è quella del padre, morto pochi anni dopo.
Nel luogo su cui sorge il cimitero si racconta che un tempo si svolgessero i sabba notturni delle streghe, e che proprio in una di queste segrete riunioni venne evocato il demonio, il quale si impossessò dei monaci di Lucedio e li indusse a cadere ripetutamente in tentazione. Nonostante le preghiere e le dolorose penitenze, infatti, sembra che essi impazzirono e commisero ogni sorta di soprusi e maltrattamenti nei confronti degli abitanti dei terreni circostanti.
Un’altra versione della storia, questa volta attestata da alcuni documenti dell’epoca, dice che nel 1684, nella chiesa di Darola, le novizie domenicane caddero vittime di una possessione demoniaca collettiva. Riuscirono a liberarsi degli influssi maligni solo grazie all’antico rimedio popolare dei “brevi”, dei sacchettini di tela all’interno dei quali venivano posti alcuni oggetti protettivi e apotropaici, come copie di lettere pastorali, immaginette sacre, frammenti di reliquie, terra consacrata, erbe e altri simboli che si diceva allontanassero le malattie e la presenza del diavolo. La tradizione popolare, ancora pregna delle antiche usanze magiche precristiane, voleva che i brevi venissero preparati solo in una notte di luna piena. Le novizie quindi li prepararono, ed essi funzionarono, liberandole dai demoni e dai cattivi pensieri.
Tuttavia, il diavolo, abbandonate le giovani suore, prese a possedere i pacifici monaci di Lucedio, che da quel momento cedettero alla follia. “Si racconta che quel luogo di preghiera e di meditazione divenne una sorta di tempio pagano in cui erano praticati riti oscuri e violenti, dominati dal sesso. Infatti i demoni si presentavano ai religiosi sotto mentite spoglie, risultando simili a fanciulle lascive e perverse.” (1)
In ogni caso, la leggenda vuole che il maligno fosse stato infine catturato, imprigionato e murato nelle cripte della chiesa di Santa Maria. Per impedire che si liberasse, e per custodire la sua prigione, vennero disposti in cerchio, seduti su dei troni, i corpi mummificati degli abati che nel corso dei secoli avevano guidato il monastero.
Sempre legato alla leggenda della liberazione e dell’imprigionamento del diavolo, è anche un altro luogo poco distante dall’Abbazia di Lucedio e quindi dal cimitero di Darola. Si tratta di una particolare chiesa, intitolata alla Madonna delle Vigne, posta su una collinetta e visibile dall’Abbazia. All’interno della chiesa è dipinto, proprio sopra il portone d’ingresso, un misterioso spartito musicale, chiamato lo Spartito del Diavolo.
Si dice che, suonato nel modo consueto, da sinistra verso destra e dall’alto verso il basso, abbia il potere di imprigionare il demonio, mentre se venisse suonato al contrario, ovvero da destra verso sinistra e dal basso verso l’alto, lo libererebbe, con nefaste conseguenze.
Infine, sembrano misteriose e sinistre anche le nebbie che in autunno e inverno sorgono dal terreno umido in fitti banchi, e che pare restino circoscritte solo nei pressi dell’Abbazia e del cimitero di Darola. Qualche testimone giura di aver visto fra i suoi strati bianchissimi entità inquiete, fantasmi e monaci senza testa.
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ALBUM FOTOGRAFICI
Il Principato di Lucedio
Il cimitero di Darola e la Chiesa della Madonna delle Vigne
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Note di Viaggio:
Il Principato di Lucedio si trova in provincia di Vercelli e poco distante da Trino Vercellese. Io l’ho raggiunto tramite le strade provinciali e statali, ma se il punto di partenza è più lontano è raggiungibile tramite l’autostrada A4 Milano-Torino, uscendo a Santhià e proseguendo in direzione di Tronzano Vercellese e Lachelle. Il cimitero di Darola è poco prima il Principato, mentre la chiesa della Madonna delle Vigne è subito dopo.
All’interno dell’azienda agricola è possibile acquistare una vasta varietà di riso e prodotti preparati col riso, ma anche farine, polenta, semolino e altre ottime specialità.
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Note:
1. Citazione da Massimo Centini, Il grande libro dei misteri del Piemonte risolti e irrisolti, pag.318
Bibliografia
Centini Massimo, Il grande libro dei misteri del Piemonte risolti e irrisolti, Newton Compton Editori, Roma, 2007
Galloni Mario, Percivaldi Elena, Alla scoperta dei luoghi segreti del Medioevo. Borghi, castelli, abbazie e monasteri leggendari di un’epoca divisa fra luci e ombre, Newton Compton Editori, Roma, 2018
Principato di Lucedio
FAI - Fondo Ambiente Italiano
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