giovedì 23 maggio 2024

La leggenda della bella Alda

Ricordando il viaggio alla Sacra di San Michele, dove spiccano le rovine del muraglione perimetrale che nei crolli ha assunto la forma di una torre, chiamata Torre della Bell’Alda, ho recuperato quella che forse è la prima versione scritta della leggenda. È stata compilata da Domenico Carutti e pubblicata nel 1847.
Ne esistono versioni più recenti, come quella riportata da Tersilia Gatto Chanu nel suo libro sui racconti popolari piemontesi, di certo più scorrevole ed evocativa, e bisogna ammettere che quando si parla di leggende, non sempre quelle più antiche sono le più belle. Tuttavia spesso contengono elementi originari che col tempo possono perdersi o venire mitigati o appannati in narrazioni più ampie e articolate, per questo credo valga sempre la pena di conoscerle.

La leggenda della bell’Auta pare davvero molto vecchia. Il primo a parlarne è lo storico Gallizia, nel 1699, poiché pare che il fatto fosse accaduto ai suoi tempi. Egli infatti scrisse: “Tanto ci raccontavano i vecchi che erano coetanei ai tempi ne’ quali ciò successe”.

La leggenda della bell’Alda

“Vedete là quasi di faccia, in po’ a mancina, quel poggetto su cui non verdeggia un fil d’erba? Quella larga striscia oscura sul piovente orientale, è la terra che smotta; invano si vorrebbe porvi riparo; quella collina franerà sempre.
Sovra di essa altre volte era fabbricato un castello; vi abitava un Conte, nemico di Dio e degli uomini; i suoi delitti erano a migliaia, il suo nome gettava terrore in tutte le capanne delle Alpi.
Alda abitava i dintorni del convento; la sua bellezza le avea meritato il soprannome di bella; Bell’Auta la chiamano ancor oggi nel dialetto gli abitatori della vallata. Né era bella soltanto, era pura come il pensiero degli angeli, innamorata della Vergine celeste, divota all’Arcangelo Michele, alla cui badia veniva ogni giorno pregando. Amava le leggende dei santi e delle vergini, e la sua mente s’infiammava all’udir raccontate le gesta delle inermi fanciulle che sfidano le minacce dei barbari padri e gli aculei dei tiranni; il suo cuore che non avea mai palpitato pei giovani presi della sua bellezza, batteva pensando ai miracoli coi quali Iddio premia e protegge la fede e l’innocenza.
Come mai la bell’Alda viveva impunemente nelle terre dello scellerato Barone? Questi da due anni era assente e guerreggiava come vassallo del Duca; guardato da poca masnada il castello; nelle capanne e nei villaggi si respirava.
Ritornò egli, terminata la guerra, e con lui gli scherani dall’orrido ceffo, dalle mani violente, dalla prepotente volontà. Come stormo di colombe all’appressarsi del falco, vedresti donne, fanciulli e vecchi riparare nel domestico tetto e sogguardarsi come chi sente l’annunzio di una grave sventura.
Un giorno il focoso Conte passeggiava solo fuori del castello; camminava senza saper dove andasse, colle braccia incrocicchiate, coll’occhio immobile. La bella Alda ritornava dalla Sacra, ed ei la incontrò. Fissolla lungamente quasi distratto; poi risensando, il fuoco della cupidità brillò nel suo sguardo. Non le parlò, ma fermatosi, la seguì coll’occhio. Mirò la svelta persona, le agili mosse, l’ondeggiare delle forme giovanili. Il Conte serrò i denti, sciolse dal petto le braccia conserte, e con passo affrettato ritornò al castello.
Il domani due grisi de’ più scomunicati par che vadano a zonzo intorno alla Sacra; di tanto in tanto danno un’occhiata alla porta del convento. La bell’Alda ne esce finalmente soletta, bella e radiante come chi, pregando, si è levato a Dio e serba in volto le tracce dell’estatico esaltamento.
Gli scherani si dilungano dallo spianato e precedono la giovinetta. Quando parve tempo, s’arrestano ed attendono.
– Alda, bell’Alda, vi piacerebbe l’amore di un uomo che fosse più potente di tutti gli altri uomini e comandasse a tutti?
– Io non intendo le vostre parole, lasciatemi ire.
– Alda, bell’Alda orgogliosetta, ti piacerebbe abitare un ricco castello, aver damigelli e damigelle a tuo servizio, cavalcare un bianco cavallo e non incallirti i piedi per questi sassi?
– Da sedici anni io vivo nella capanna di mio padre, e mi è sempre paruta troppo bella per me; e da un pezzo fo questa via, e ci sono avvezza. Tiratevi da un lato che il sentiero è stretto.
– Alda, ascoltaci. Noi dobbiamo condurti ad un uomo che ti ama, ed è il più ricco signore del Ducato.
– Se voi siete maligni spiriti che venghiate a tentarmi, io vi comando di partire in nome del Signore.
– Il tuo Signore non è quello che ci dà le paghe, e noi non siamo di casa sua. Vieni con noi.
Lo scherano l’afferra; Alda si divincola e fugge: fugge e dietro a lei i due uomini del Conte. Fugge, e li lascia indietro di molti passi, e giunge dove il monte finisce tagliato a picco. Da un lato il muro della badia, dall’altro la voragine.
– Fermatevi o non m’avrete viva, grida ella; la Beata Vergine e San Michele mi aiutino.
Ma gli scherani la deridono, già le sono vicini; ed Alda, invocata Maria, si precipita dall’alto. Quelli, attoniti, gettano un grido e si chinano sul precipizio per vedere.
E vedono la bell’Alda circondata da una nube bianca che dolcemente discende colle mani giunte e levate al cielo, portata lentamente come foglia che si trastulla sull’ale dei venti.
Divulgatosi il fatto, da tutti i paesi traeva gente a vedere e lodare la mirabile fanciulla, ed allora si cantò una canzone che incominciava così:

La bell’Alda perseguita
Qui dal balzo si gettò;
E nel fondo della valle
Lene il vento la posò.


E narra che quando gli scherani perseguitavano la giovinetta, il Conte se ne stesse sulla sommità d’una torre, e di là vedesse il salto della bell’Alda, e che in quel punto il poggio si commovesse come per terremoto, e crollasse il castello e perisse il Barone e sua iniqua masnada; e dicesi che il monte sul luogo ove fu edificato detto castello, smotti e debba smottare per sempre.
Ora Alda comincia a compiacersi singolarmente delle lodi che le vengono date; rammenta l’insulto, la fuga, il salto miracoloso… e già considera se stessa maggiore delle fanciulle sue compagne, si crede prediletta da Dio. E siccome pessima consigliera è la vanità, un giorno, in presenza di numerosi spettatori accorsi, ella promette di lanciarsi una seconda volta dal balzo; e si slancia, e le punte delle rocce ne trattengono il corpo frantumato.
Allora corse un’altra canzone che diceva:

La bell’Alda inorgoglita
Qui dal balzo si gettò;
Sfracellata nella valle
La bell’Alda se ne andò.


***

Leggenda tratta da Domenico Carutti, La bell’Alda e i laghi di Avigliana, in Tradizioni Italiane per la prima volta raccolte in ciascuna provincia dell’Italia e mandate alla luce per cura di rinomati scrittori italiani, Vol. I, a cura di Angelo Brofferio, Stabilimento Tip. Di Al. Fontana, Torino, 1847, pagg. 713-716.


venerdì 17 maggio 2024

La Sacra di San Michele. La via serpentina verso il cielo

Succede a volte che certi luoghi debbano essere incontrati e vissuti in un tempo limitato, e anche se si vorrebbe fermarsi per viverli più a lungo, non è concesso farlo. Allora li si respira il più possibile, ci si immerge completamente, cercando di raccogliere tutto ciò che circonda. Gli occhi corrono, si posano dappertutto, catturano ogni cosa, così che possano poi ricordare immagini, colori, luci e ombre; le mani accarezzano, il cuore ascolta.
Ogni cosa tornerà a vivere in un secondo momento, nel tempo della memoria. Un tempo prezioso e illimitato, nel quale restare a deliziarsi quanto si vuole, per rievocare, ripercorrere, e soffermarsi. Perché certe sensazioni istantanee, certi momenti sospesi, non sempre vengono compresi nell’immediato. Eppure restano aggrappati addosso, e possono essere ripresi, ascoltati, compresi.
Stare nel tempo della memoria rivela anche le vere percezioni lasciate dentro dal luogo in cui si è state/i. Certi posti appaiono piacevoli, divertenti, eppure la memoria ne serba inspiegabilmente sensazioni di disagio e fastidio. Forse l’anima non li ha graditi. Altri posti invece, inizialmente ambigui o incompresi, restano tuttavia impressi dentro come luoghi di incanto, di potere e bellezza, anche molto tempo dopo averli abbandonati.
False luci e vere luci, forse, quelle che luccicano e ingannano, per poi non lasciare dentro nulla e far perdere la rotta, e quelle che brillano solo intraviste, per poi rivelarsi forti e costanti. Inesauribili.

Di certo, il luogo in cui finalmente sono stata la scorsa domenica, è una vera luce. Ma per viverla a mio modo e scoprire ciò che in essa brillava – e dunque risuonava – per me, ho seguito una via secondaria, personale, la via dentro la via, che passa dentro e sotto a quella camminata dai più.

Siamo partiti nel primo pomeriggio, un pochino in ritardo rispetto ai piani, e il ritardo è aumentato a causa di una coda in autostrada. Raggiunta la bella Avigliana, siamo passati fra i suoi due laghi – che ci siamo ripromessi di tornare a vedere con calma – e abbiamo imboccato la via che portava su alla nostra meta: la Sacra di San Michele.
Ben visibile già dall’ultimo tratto di autostrada, spiccava impressionante immersa in una foschia azzurra. Aggrappata, o meglio, avvolta nella roccia della montagna, ispirava timore e al contempo ammirazione.
Sicuramente col sole è bellissima, ma io la volevo incontrare proprio così. Fra le nuvole scure che minacciavano pioggia e temporale, squarciate di tanto in tanto da un solitario raggio di sole.
Il lato positivo dei piccoli ritardi è che la maggior parte dei visitatori, ligia ai giusti orari, si sta già allontanando, così la visita si è preannunciata piuttosto riservata e tranquilla.


Lasciata la macchina, abbiamo iniziato a salire a piedi lungo il breve tratto che separa il parcheggio dal complesso monumentale, ridendo e scherzando sul fatto che, dopo le varie volte in cui il mio compagno di viaggio aveva parlato della “sagra” di San Michele, fosse curioso trovare lungo la strada un mercatino di caciotte.
La via in salita passa accanto a grosse pietre, mentre sambuchi e maggiociondoli accompagnano durante la passeggiata. Raggiunto il pianoro si incontra la prima parte del sito, il cosiddetto Sepolcro dei Monaci, ovvero i resti di una chiesetta romanica a pianta ottagonale con absidi semicircolari. Poco oltre si vede comparire la Sacra in tutta la sua grandezza, ma prima di addentrarci al suo interno ne riporto una breve descrizione per conoscere la sua storia e qualcuno dei suoi misteri.



La Sacra di San Michele è una abbazia molto antica che probabilmente venne costruita nella sua prima fase tra il 983 e il 987. Arroccata sulla cima del monte Pirchiriano, fra il paese di Chiusa San Michele e Sant’Ambrogio di Torino, è dedicata al culto di San Michele, colui che calpesta e sconfigge il diavolo, proteggendo dal male il popolo cristiano. Il monte che la ospita fa parte delle Alpi Cozie e deriva il suo nome da Porcarianus, ovvero Monte dei Porci. Accanto ad esso sono il Musiné, o Monte degli Asini, e il Caprasio, o Monte delle Capre.
Dove sorge l’abbazia, in epoca romana era presente un castrum con presidio militare di vedetta, il quale passò poi ai Longobardi. Tra il XII e il XV secolo la Sacra di San Michele ebbe il suo periodo di massimo splendore, diventando uno dei maggiori centri italiani della spiritualità benedettina, e successivamente, nel XIX secolo, passò alla fratellanza dei padri rosminiani.
La sua leggenda narra che sia stato San Michele Arcangelo a volerne la costruzione, comparendo in sogno all’eremita San Giovanni Vincenzo nel X secolo. Il religioso intese che il tempio doveva essere costruito sul monte Caprasio, dove egli si trovava, ma tutto il materiale da costruzione che vi portava con fatica durante il giorno, scompariva nella notte. Intenzionato a scoprire chi lo rubava, l’uomo attese la notte senza addormentarsi e vide con stupore che a prelevarlo erano degli angeli, i quali lo portavano sul vicino Pirchiriano. Allora Giovanni Vincenzo capì che la chiesa doveva essere eretta là, e da l’edificazione ebbe inizio. Il nome del complesso, ovvero Sacra – a indicarne una consacrazione divina – deriverebbe proprio da questa leggenda, in quanto fu voluta direttamente da San Michele e dagli angeli, i quali parteciparono alla sua costruzione.


Interessante è la sua appartenenza a una misteriosa linea energetica retta – o leyline – molto intensa, detta Linea Sacra di San Michele o Via Micaelita, che unisce l’Irlanda a Gerusalemme.
Le leylines sono linee di energia che passano attraverso punti precisi e molto potenti della Terra, i quali soprattutto nei secoli passati erano considerati di grande valore e spiritualità.
Secondo la leggenda cristiana la Linea Sacra di San Michele fu tracciata dal violentissimo colpo di spada che l’Arcangelo inflisse al Demonio per rimandarlo all’inferno. In realtà queste linee energetiche esistono da sempre ed erano riconosciute e onorate molto tempo prima dell’arrivo del cristianesimo, e dunque di San Michele. Il loro potere è spesso simboleggiato dall’energia serpentina che si muove nelle viscere della terra, portando beneficio, forza vitale e rigenerazione – nulla di diabolico, naturalmente.
Entrando nel dettaglio della Linea Sacra di San Michele, i suoi punti di potere sono l’Isola Skellig Michael – o Great Skellig – dal gaelico irlandese Sceilig Mhichíl, ovvero “Roccia di Michele”, in Irlanda, sulla cui sommità sorge un quasi inaccessibile monastero cristiano costruito nel 588; Saint Michael’s Mount, un’isola situata all’estremo occidentale della Cornovaglia, raggiungibile solo con la bassa marea; Mont Saint-Michel, molto simile al Saint Michael’s Mount, ma situata in Normandia, anch’essa circondata dal mare e raggiungibile solo con la bassa marea; la Sacra di San Michele, in Italia, in Piemonte, che rappresenta il punto centrale della linea; Monte Sant’Angelo, sempre in Italia ma in Puglia, nella sua Basilica Santuario di San Michele costruita dentro la roccia; il Monastero di San Michele, sull’Isola di Symi, in Grecia; e infine l’ultimo punto della linea e la sua meta, Gerusalemme. Ci si aspetterebbe che la Linea di San Michele si concluda in un luogo di culto dedicato all’Arcangelo, o magari a Cristo. In realtà il punto in cui termina la retta energetica è il Monte Carmelo, ad Haifa, dove sorge il Monastero di Stella Maris. La Linea Sacra di San Michele conduce inaspettatamente alla Stella Maris, la Stella del Mare o Maria della Stella. (1)
La sua figura germoglia dalle divinità femminili precristiane delle stelle, come Astarte.
Il Monte Carmelo, inoltre, è noto nella Bibbia perché sulla sua cima il profeta Elijah aveva sfidato i sacerdoti, le sacerdotesse, i profeti e le profetesse di Asherah e di Baal che erano al servizio della regina Jezabel, e in seguito al loro fallimento, li aveva sterminati.
Un luogo estremamente significativo nel contesto dei culti precristiani, che diviene la meta assoluta della linea energetica Micaelita.
Lungo questa linea si snoda il percorso dei pellegrini. (2)

***

Torniamo al nostro viaggio, e proseguiamo verso il monumento, che ormai è davanti a noi.
Ripresa la salita, io e il mio compagno di viaggio raggiungiamo col fiatone l’ingresso e guardiamo con un po’ di timore i suoi numerosi scalini. La Sacra di San Michele è completamente sviluppata in altezza. Verticale, ripida, vertiginosa. Porta in alto, sempre più in alto, scalino dopo scalino, fino a incontrare il volo degli uccelli e a toccare il cielo. E forse è anche per questo se l’ho amata tanto.
Il primo incontro dopo essere passati dalla biglietteria, è con la famosa statua di San Michele. Stranamente – considerando la mia forte antipatia per l’Arcangelo – la trovo piacevole.



Dopo diversi scalini si raggiunge la soglia vera e propria, che si apre alla base di una parete altissima. Forse sono l’unica a scorgere dei fiori rosa intenso che ondeggiano a metà altezza. Sono bocche di leone selvatiche, color porpora. Le guardo, me ne innamoro, e tenendole in cuore varco la porta.
La penombra e una luce dorata che proviene dall’alto, accolgono non appena si accede al famoso Scalone dei Morti. Si chiama in questo modo perché per diverso tempo, in una nicchia laterale della scala, venivano custodite le ossa di alcuni monaci, come guardiani oltremondani che osservano in silenzio e proteggono le mura.
Iniziamo a salire, lo scalone è possente, impressionante. Mentre mi riposo dopo la prima rampa, ricordo di aver sentito, tempo prima, di una energia molto intensa che attraverserebbe la scalinata in un punto preciso. Non ricordo quale sia, ricordo solo che si diceva che alcune persone in quel punto accusano vertigini e malessere, oppure benessere. Mi preparo, come sempre, a non sentire nulla, e mi lascio catturare da ciò che mi circonda. Amo ciò che vedo, sono affascinata dalla luce che entra dall’arco in cima alla scala, prolungo il più possibile la permanenza fra quella pietra e il ricordo dei suoi morti.




Scalino dopo scalino dovrei essere stanca. Eppure ad un certo punto mi rendo conto di provare una sensazione di profondo benessere. Ogni residuo di stanchezza è svanito nel nulla. Ho salito quasi duecento scalini eppure mi sento piena di energia, rigenerata, quasi euforica. Mi fermo e ascolto ciò che provo: benessere, freschezza e gioia. La sento, mi dico, non posso negarlo.
Forse qualcuno ha pensato che fossi sfinita, dal momento che mi sono seduta su uno dei gradini. In realtà stavo così bene che volevo restare lì.
Da quella posizione ho inoltre potuto notare un rilievo seminascosto in cima a una delle grandi colonne. Si tratta di una sorta di diavoletto all’interno di un uroboro, il serpente che si morde la coda. Il mio amato serpente ha iniziato a rivelarsi. E forse era la sua energia terrestre, rigenerante e profondamente benefica ad avermi trasmesso quel benessere e quella gioia inaspettati.
La via dentro la via, per me, in quel momento, era proprio questo. Seguire il serpente e le creature antiche, nascoste fra le rocce.




Controvoglia decido quindi di alzarmi e salire gli ultimi gradini. Ad aspettarmi in cima al Portale dello Zodiaco, loro, le più amate. Le donne che allattano i serpenti. Madri delle serpi, offrono loro i seni colmi di latte e reggono fra le braccia le loro teste. Sono ritenute, ed è evidente, uno dei simboli più eloquenti della antica presenza in loco del sacro femminino precristiano. Accanto a loro le loro sorelle, le sirene bicaudate. Anche loro, con le code divaricate, richiamano l’energia femminile generativa e rigenerativa, la presenza sotterranea di acqua e umidità, la coesistenza di vita, morte e rigenerazione. Coronano uno scalone dove erano custoditi i morti, di fronte a un uroboro nascosto, dove energia benefica e potente trasuda da ogni pietra e, in particolare, dalla colonna centrale – la sua spina dorsale.
Resto ammaliata a guardarle, e porto con me i benefici che mi hanno donato.



Si ricomincia a salire, altri scalini. Questa volta li faccio saltellando come una lepre.
Ed ecco il grande portone di legno che si apre sulla chiesa. Il diavolo incatenato suggerisce che al suo interno il bene ha trionfato. Eppure la luce non esiste senza l’ombra, e senza dubbio, le due non possono fare a meno di completarsi in amabile armonia.
La chiesa è immensa, il soffitto altissimo. Considerando che è costruita sulla vetta del monte, ci si chiede come sia stato possibile realizzare un’opera simile.


Mi perdo fra le sue penombre e le sue luci calde e avvolgenti. Incontro sante e santi amati, fra cui Santa Liberata, Santa Barbara, Santa Brigida e una splendida Santa Lucia; una Madonna della Misericordia, una Madonna Assunta in Cielo, e una Madonna del Latte. E poi San Giovanni Battista che predica agli animali, in particolare a un bellissimo unicorno, e uno dei – pochi – santi maschili che apprezzo, San Cristoforo. Proprio lui era un altro dei dettagli che volevo incontrare e osservare da vicino, non solo per lui, ma per ciò che ha tra le gambe. Detta così suona malissimo, ma a parte gli scherzi, è proprio così. In certe raffigurazioni particolari, fra le gambe di San Cristoforo che attraversa le acque del fiume, compare ancora lei, la sirena bicaudata. Quella che nuota in questo affresco per me è fra le più belle.





Mentre continuo a esplorare la chiesa cercando di cogliere ogni dettaglio, il mio compagno di viaggio mi chiama e indica ciò che è scritto sul cartello che mostra le chiese che fanno parte della Linea di San Michele. La scritta, che riguarda proprio la Sacra di San Michele, è completamente inaspettata e mi lascia senza parole:
In questo santuario, già chiesa abbaziale, dedicata a Santa Maria della Stella e poi a San Michele Arcangelo, è molto diffusa la devozione alla Beata Vergine Maria per le numerose sue raffigurazioni.”
Dunque la Sacra di San Michele era in origine una abbazia dedicata alla Madonna della Stella e solo in seguito è stata intitolata all’Arcangelo Michele, ma nessuno – o quasi – lo ricorda o ne parla. Non ne avevo idea, sono esterrefatta. Eppure tutto torna.
Ripenso al Monastero della Stella Maris di Gerusalemme, dove la linea energetica Micaelita in ultimo conduce, e sento che vi è molto altro, sotto la superficie, da comprendere e svelare. Ognuno di questi luoghi è posto molto in alto, e forse in origine era legato all’osservazione e al culto delle stelle, al loro movimento nella volta celeste, oltre che all’energia terrestre che scorre sottoterra. Tuttavia, il mistero permane.

Riprendo a vagare per la chiesa, e cerco il suo punto più importante, la vetta del monte su cui posa tutto l’immenso complesso. Eccolo lì, alla base di una colonna, il Culmine Vertiginosamente Santo, come lo ha definito il poeta Clemente Rebora. Non ho mai toccato la vetta rocciosa di una montagna, la tocco adesso.
Tutto inizia dove tutto finisce, ciò che sembra la fine è sempre un nuovo inizio.
Come il serpente che si morde la coda. Anche qui, l’energia serpentina scorre e si diffonde.


Mentre mi perdo fra una colonna e l’altra, la guida che accompagna un gruppo di turisti incomincia a parlare del valore del mantenimento del silenzio, e del raggiungere la vetta perché è lì che si incontra la luce. La chiesa non è stata costruita a caso, spiega, la sua posizione è precisa, poiché nel giorno di San Michele, il 29 settembre, il sole entra al suo interno dalla finestra dell’abside centrale e illumina l’altare, infondendo luce tutt’intorno.
Come i dolmen e i templi antichi, ogni cosa è come e dove deve essere per un motivo. L’antico si congiunge al nuovo e continua a vivere sotto nuove spoglie.
Due uccellini entrano dalla porta aperta e volano all’interno della chiesa. Eccolo il mio momento magico, penso commossa. Sono due codirossi, uno esce subito, l’altro va a posarsi sulla piccola finestra di una delle absidi laterali. Vorrebbe uscire da lì ma la finestra è chiusa. Vola di nuovo e si posa sul capitello di una colonna, poi tenta di uscire da un’altra finestra chiusa.
Certe vie sembrano aperte ma non lo sono, sembrano portare alla libertà, ma non lo fanno.
Lo guardo cercando di attirare la sua attenzione e, passo dopo passo, mi avvicino al portone aperto. Lui mi segue – o almeno mi piace pensarlo – poi vede una persona uscire da lì e volandogli sopra la testa esce anche lui.
A volte bisogna osservare bene per capire da che parte andare, così da evitare vicoli ciechi – e testate sui vetri.
Ormai il mio cuore è con il codirosso, sono nella mia via dentro la via, e non intendo abbandonarla.
Riprendo il mio compagno di viaggio che a sua volta ha seguito le sue vie, e scendiamo da una scaletta ripida per dare uno sguardo alle Cappelle Primitive, purtroppo chiuse da un cancellino di legno. Insieme costituiscono l’origine più antica dell’abbazia: la prima cappella risale al IV secolo d.C.


Dopo averle intraviste, usciamo quindi per accedere alla terrazza più alta del complesso. Da qui si vede ogni cosa, le vette delle montagne circostanti, verdissime, e l’intero mondo sottostante.
L’altezza è incredibile, vertiginosa. Le rondini volano libere e vivaci sopra la testa. Su quel tetto elevatissimo, con gli uccelli che compiono peripezie nel cielo, una nuova, potente euforia mi riempie dentro. Sento il forte impulso di salire in piedi sul muretto che delimita il terrazzo, aprire le ali e spiccare il volo. Convengo con me stessa che non sia il caso di farlo perché finirebbe male, e mi accontento di ascoltare tutti quei moti interiori che scalpitano, frullano e si agitano insieme, e che per un attimo mi fanno sentire ingabbiata. Li lascio liberi di essere, ricordando loro che certe cose in questo corpo non si possono fare, che il nostro tempo tornerà, presto o tardi.
Mi soffermo, affacciata, a guardare dal picco in giù, osservo i fiori selvatici che crescono sulle rocce. L’euforia non mi abbandona, se mai cresce.
Ecco cosa vedono gli uccelli. I miei occhi sono i loro occhi, di nuovo.
Questa vista mi appartiene sin dentro le viscere.




Ormai è tempo di scendere – no, non in volo, non si può, mi ripeto scherzando con me stessa – c’è ancora qualcosa da vedere, e i piccoli ritardi accumulati nel viaggio non ci permettono di indugiare oltre.
La discesa non avviene piombando dal cielo, ma scendendo scale dentro la roccia. Raggiungiamo un altro piano esterno dove incontriamo le rovine di quella che sembra una torre a strapiombo sul precipizio del monte. È la Torre della Bell’Alda, o bella Alda. In realtà, seppur venga chiamata “torre” ed effettivamente lo sembri, è ciò che resta del muraglione perimetrale che faceva parte del caseggiato del monastero, il quale per la conformazione del terreno si protendeva nella sua estremità con questa forma.


Il suo nome nasce da una leggenda che viene narrata sin dalla fine del 1600, pressoché identica a quella che si racconta a Oropa sul torrentello che scorre accanto al santuario, soprannominato Eva ch’a massa, “acqua che ammazza”.
Tentando di fuggire da alcuni soldati che vorrebbero violarla, una bellissima giovane di nome Alda si lancia dalla torre e, miracolosamente, si posa a terra con dolcezza, senza farsi alcun male. Da allora comincia a essere venerata dal popolo e trattata come una santa, e purtroppo le lusinghe la riempiono di orgoglio e vanità a tal punto da decidere, tronfia nella presunzione di poter fare ogni cosa, di dimostrare a tutti che può gettarsi di nuovo dalla torre senza subire un graffio. Naturalmente la poverina precipita, sfracellandosi sulle rocce.

Mentre raggiungiamo le rovine una pioggerella sottile comincia a cadere dalle nuvole. Ci proteggiamo per qualche istante sotto la torre, osservando di nuovo dal piccolo balconcino la vastità che ci circonda, e poi proseguiamo verso la base della Sacra, passando accanto all’antica ghiacciaia e, infine, uscendo dal cancello.


Stiamo morendo di fame e per fortuna il piacevolissimo bar Convivium che fa parte del complesso è aperto per ancora un quarto d’ora. Un tempo breve ma decisamente rigenerante. Gustiamo con gioia un marocchino con la Nutella e due fette di torta, la mia variegata alla Nutella – devo consolarmi perché non ho potuto volare dalla montagna – e la sua alle nocciole.
Ormai piove bene, torniamo verso la macchina riparandoci sotto agli alberi che costeggiano il sentiero.



Fortunatamente il violento nubifragio che si abbatte sull’autostrada finisce poco prima del nostro passaggio. Torniamo verso casa in tranquillità, come se avessimo colto i tempi giusti perché ogni cosa fosse per noi semplice e sicura.
Un altro luogo è stato incontrato, vissuto, respirato, assorbito. Un’altra meta raggiunta, alla quale essere grati.

Ripensandoci, di San Michele, al di là del nome, della strategica leggenda, e di alcune ovvie rappresentazioni tutte moderne, non ho trovato traccia. Io almeno, non l’ho sentito – che peccato…
Ho sentito molto di altro, invece.
Ho camminato la via del serpente, ho percepito e accolto la sua rigenerante energia, ho incontrato le madri delle serpi e le sirene dalle due code, il santo che cammina sulle acque e una miriade di figure femminili che rivelano quanto il sacro femminino arcaico fosse e sia tutt’ora presente e vivo in questo sacro luogo – dedicato, in origine, alle stelle.
La via dentro la via. Serpentina eppure dotata di ali.
La voce di Melusina sussurra nel vento:
Dalle viscere della terra,
passando attraverso la roccia,
fino al vertiginoso cielo.
E qui il volo.
Nella luce.


***

ALBUM FOTOGRAFICI
Prima parte
Seconda parte

***


Note:

1. Il nome ebraico di Maria, Myriam, in realtà significa Goccia di Mare, Stilla Maris, divenuto per un errore di trascrizione Stella Maris. Questo significato è stato tuttavia mantenuto nella tradizione cristiana, e Maria è diventata la stella polare dei credenti. (Cfr. Anthony Maas, The Name of Mary, in The Catholic Encylopedia, Robert Appleton Company, New York, 1912)

2. Le notizie raccolte sulla storia della Sacra di San Michele e alcuni accenni alla Linea Sacra di San Michele sono state raccolte e rielaborate dal sito ufficiale del complesso monumentale: Sacra di San Michele

***

Note di Viaggio:
Per raggiungere la Sacra di San Michele, monumento simbolo del Piemonte e punto centrale della linea energetica che unisce l’Irlanda a Gerusalemme, si percorre l’autostrada A4 fino ad Avigliana, e si prosegue verso la vetta del Monte Pirchiriano. La Sacra è aperta tutti i giorni, dalle 9:30 alle 17:30 nel periodo primaverile ed estivo – da marzo a ottobre – e dalle 9:30 alle 16:30 in quello autunnale e invernale – da novembre a febbraio. Il biglietto d’ingresso intero costa 8 euro, ridotto 6 euro. Il bar e il negozio della Sacra, posti prima dell’ingresso, chiudono alle 18:30.
Tutte le informazioni dettagliate sono consultabili sul sito ufficiale Sacra di San Michele